
Viaggio a l’Avana dove il tempo si è fermato fra i rottami di una guerra fredda insostenibile e nell’indifferenza di un occidente che ha interpretato la storia in modo deformato
Vedado (l’Avana) – L’albergo si trova nel quartiere avanero del Vedado, praticamente il mesto centro direzionale della capitale cubana. Il volo è giunto con grande ritardo da Parigi poiché l’aereo (un comodo volatile iperuranio detto anche Boeing 787 Dreamliner) per un guasto tecnico che aveva spaventato i passeggeri, era partito circa due ore dopo l’orario previsto del decollo (non funzionava più l’impianto di comunicazione interna ed esterna). Così l’Avana, dopo 11 ore di volo, è stata raggiunta in piena notte ma ci ha offerto subito la sua oscura intimità perduta poiché già incline ai bagliori dell’alba oceanica. Tuttavia al turista ignaro, che percorre in taxi la molto malconcia autostrada che lo porta nel centro città, si svela subito lo spettacolo delle centinaia di auto in fila davanti alle rare stazioni di servizio presso le quali – ha assicurato il mio autista – è finalmente arrivato un magro rifornimento di carburanti, probabilmente dal Messico.
Al 12esimo piano la grande finestra della camera d’albergo svela la doppia incerta vista dell’Hotel Nacional e uno scorcio sul Malecon (Avenida de Maceo), la lunghissima passeggiata su quel mare che separa Cuba dalla Florida, circa 170 km di uno spicchio di oceano che, in realtà, in termini ideologici si misurano in anni luce. Proprio dalla finestra si nota bene l’ampio elegante spiazzo del Malecon dove si erge il monumento alle vittime della corazzata statunitense Maine, fatta esplodere dagli stessi statunitensi il 15 febbraio del 1898 a dispetto delle ben 255 vittime sacrificali, come pretesto per dichiarare guerra alla Spagna (immediatamente accusata del sabotaggio), potenza coloniale residuale nei Caraibi contro la quale i cubani erano già in rivolta da tempo.
Col sacrificio programmato dei suoi uomini gli Usa si assicurarono la certezza di una rapida guerra contro la Spagna la cui flotta verrà rapidamente sbaragliata (non solo a Cuba) per consentire alla longa mano a stelle e strisce di aggiudicarsi fin dagli ultimi anni del XIX secolo Cuba e i suoi annessi oltre ad ottenere altri consistenti vantaggi territoriali alle Filippine e non solo. Il monumento eretto sul Malecon nel 1925 ricorda questa sordida vicenda poi chiarita solo molti decenni dopo, in perfetta sintonia con le prove delle centinaia di tentativi di assassinio del leader comunista Fidel Castro che la Cia ha da pochissimo declassificato come ulteriore nefandezza del suo “glorioso” passato.
Penso a quanto mi aveva raccontato lo scrittore ed ex diplomatico cileno Jorge Edwards, biografo di Pablo Neruda, nel settembre del 1991 evocando il suo libro contro Fidel Castro pubblicato nella Spagna ancora franchista del 1973 e intitolato “Persona non grata” la cui tardiva traduzione italiana scontò (forse a giusto titolo) la censura della sinistra. “Si’, la mia generazione è stata quella della rivoluzione – raccontava Edwards – molti intellettuali sudamericani ci hanno creduto. Nel 1970 fui incaricato di normalizzare le relazioni diplomatiche fra il Cile di Allende e il governo dell’Avana. Ero un diplomatico di carriera ma anche uno scrittore e in quanto tale ero già stato a Cuba. Conoscevo la comunità intellettuale dell’Avana, ero amico del poeta Herberto Padilla e di José Lezama Lima. Arrivai nell’isola in un momento di grande tensione. Castro usciva dal fallimento economico di un infruttuoso ammassamento di 10 milioni di tonnellate di zucchero. L’ambasciata cilena ancora non esisteva fisicamente. Io – proseguiva Edwards – alloggiavo in un grande albergo con una hall immensa dove, fra alcuni bar e ristoranti, tutta la società cubana andava a braccetto con la diplomazia internazionale. Ricordo che gli ambasciatori di altri paesi comunisti, come quello della Yugoslavia, mi confidarono i loro timori che il Cile potesse avere un destino analogo a quello di Cuba. Intanto le prime avvisaglie della diffidenza erano proprio sotto i miei occhi. Padilla tenne un recital di poesia, vi andai e vennero anche altri diplomatici. Poi una tarda sera di domenica Castro mi convocò, mi disse che all’inizio gli ero parso simpatico ma che adesso era profondamente deluso perché ero diventato ostile alla rivoluzione cubana. Contestai che avevo sempre simpatizzato per la scelta rivoluzionaria e i miei dirigenti mi avevano affidato quella missione proprio per questo motivo ma in quei pochi mesi avevo osservato cose preoccupanti che non mi sarebbe piaciuto vedere anche in Cile. A questo punto Castro si infuriò. Difesi Padilla dicendo che ogni poeta va rispettato. Quando accusò Padilla di avere “certe ambizioni” Fidel mi sembrò quasi paranoico ma in quel momento il colloquio si era già esaurito. Lasciai Cuba ed ebbi un nuovo incarico presso la nostra delegazione di Parigi dove ambasciatore era Pablo Neruda”.
Fin qui Edwards che svanito nel ricordo della notte mi ha indotto a recarmi presto all’Hotel Nacional evocato nell’intervista. Non so quanto sia cambiato da allora. Le architetture sono squisitamente made in Usa, venne eretto dalla Mckim, Mead & White nel 1930 e assomiglia ad analoghi manufatti di quegli anni ancora in piedi negli Stati Uniti. Nel 1933, dopo il colpo di stato di Fulgencio Batista, come in un film gangster, l’Hotel Nacional fu teatro di una sanguinosa battaglia tra diverse fazioni dell’esercito cubano, tra militari fedeli al governo e la soldataglia di Batista. Al suo interno si respira l’aria di una dolce decadenza sebbene sia stato l’edificio che insieme al Campidoglio è attualmente fra i pochissimi ben curati a l’Avana. Oltre al grande e quasi sontuoso ristorante in stile coloniale in fondo a destra della grande hall (in cui gli ascensori sono ancora scricchiolanti di legno stagionato) ci sono almeno altri 3 ristoranti e un café/bar (col bancone strapieno di liquori e spiritosi) che si affaccia su una spianata verde alta sul Malecon.
Nel dicembre 1946 l’hotel ospitò la “conferenza dell’Avana”, celebre incontro dei capi della mafia italo-americana che vide in poltronissima Lucky Luciano, Meyerr Lansky, Santo Trafficante Jr., Frank Costello, Vito Genovese ma non solo. Il gotha “dell’onorata società a stelle e strisce”. Non è un caso che Francis Ford Coppola nella seconda parte de “Il Padrino” mise in scena, proprio in un ambiente che replica il Nacional, questo vertice mafioso.
L’impronta statunitense sull’insieme di Cuba non si ferma neanche qui, né si limita alle tappe delle relazioni storiche e alla reazione dell’indiscutibile eroismo espresso dalla popolazione cubana la cui situazione generale è rimasta confinata in una bolla residuale e assurda della guerra fredda (e questo nonostante gli 8 collegamenti aerei quotidiani fra Miami e l’Avana).
Al Vedado, a meno di 800 metri dall’Hotel Nacional, sorge l’ambasciata statunitense, un parallelepipedo di vetro e cemento che, tirato a lucido, sfida il Malecon col suo lato corto. Attorno una robusta cancellata, un ampio parcheggio con una piantagione di suv che sembrano corazzati e uno stuolo di vigilantes interni ed esterni, probabilmente corroborati da centinaia di occhi elettronici. Noto che l’adiacente monumento cubano della Tribuna Antimperialista sfoggia un pennone con la bandiera nazionale non più alto e nemmeno più vistoso del pennone a stelle e strisce innestato nell’adiacente piazzale dell’ambasciata USA. Insomma il regime non ha voluto umiliare architettonicamente la Casa Bianca come qualunque altro stato avrebbe fatto in analoga situazione di permanente umiliazione economica. La mia guida assicura che l’edificio della delegazione statunitense è sempre stato lì, forse da almeno 100 anni e che il vicino monumento cubano è più recente.
Ci riavviamo sul Malecon in direzione centro città. Sotto il giardino dell’Hotel Nacional la guida mi segnala l’esistenza dei camminamenti sotterranei costruiti in fretta al momento della crisi dei missili fra John Kennedy e Nikita Kruscev (annata 1962) quando, dopo il massiccio schieramento di poderosi Jupiter statunitensi, perfettamente architettati da Wernher von Braun e piantumati in Anatolia e Puglia (pronti a cancellare dalla faccia del pianeta le maggiori città sovietiche), Kruscev si decise a ordinare l’installazione di una parte delle sue atomiche sull’isola caraibica come risposta alla minaccia americana già operativa. Anche di questa vicenda in Occidente siamo stati edotti in dettaglio con almeno 40 anni di ritardo perché la vulgata della prima versione era tutta concentrata sulla cattiveria moscovita di comunisti pronti a scatenare l’inferno atomico fin dai Caraibi. Erano loro i colpevoli.
Purtroppo almeno a l’Avana troppe cose parlano ancora insistentemente del “bloqueo”. Non è difficile vedere mendicanti che si nutrono direttamente dei resti delle spazzature nei cassonetti delle immondizie, si notano anche pietose e sbiadite affiche contro l’anoressia mentre in tutta La Habana Vieja sfila un popolo smagrito e straccione con tantissime languide ragazze adolescenti tutte pelle e ossa che fanno pensare quanto i disturbi alimentari a certe latitudini possano essere scatenati dalla mancanza di adeguata alimentazione. Gli stessi rarissimi gatti di strada ti guardano con enormi occhi su testoline e corpicini cadaverici. Sono inguardabili. Eppure il sorriso e la musica regnano ovunque fra queste fatiscenti architetture e sono una meravigliosa risposta alle assurdità politiche dell’Occidente.
La guida mi porta nel cuore della città vecchia, davanti all’Hotel Inglaterra nella piazza col monumento a José Martí, grande anima e padre fondatore della Patria. La storiografia ha ormai accertato che Fidel Castro, lungi dall’essere stato un servo di Mosca, aveva saputo rielaborare la potentissima narrativa storico/culturale e politica che lega il popolo cubano a Martí e in filigrana si percepisce anche il solco profondo e utopico del colombiano Simón Bolívar che riguarda l’insieme dell’America Latina. Davanti a uno schieramento di vecchie Ford, Impala, Chevrolet degli anni Quaranta e Cinquanta tirate a lucido, ridipinte e ri-motorizzate con mefitici propulsori diesel Toyota (che hanno fatto anche loro probabilmente milioni di chilometri), si staglia la cupola dorata del Campidoglio. Mi dicono che è stata la Russia, già diversi anni fa, a dare l’oro, grandi quantità di oro per la doratura, applicata anche alla statua di almeno 7 metri rappresentante la Repubblica (che in realtà è una Minerva) opera dell’italiano Angelo Zanelli. All’ingresso del Campidoglio fa gli onori di casa. La doratura aveva scatenato una ridda di polemiche perché quell’oro si poteva forse trasformare in generi di prima necessità ma la guida, una cubana in attesa di avere la nazionalità spagnola per potersi muovere liberamente, dice inoltre che Putin aveva regalato al governo cubano 60 milioni di dollari che non sarebbero stati spesi bene. Non commento, penso però che solo per restaurare l’insieme dell’urbano de l’Avana, con la sua appendice aeroportuale, a occhio e croce ci vorrebbero probabilmente almeno 10 miliardi di dollari e forse non basterebbero visto che bisogna rifare letteralmente tutto: fogne, strade, impianti elettrici, condutture idriche, edifici, proprio tutto. Lo stesso Malecon oggi è un marciapiede per fachiri, evidentemente il mare lo logora e il selciato è tutto rattoppato con una mescola di cemento a buon mercato e pietrame anche aguzzo che non consente di camminare in modo proprio comodo.
A l’Avana resta comunque onnipresente (inossidabile) il mito di Ernest Hemingway, non solo nella sua ex dimora, un museo rigorosamente fatiscente come il 70 per cento dell’urbano avanero. Alla terrazza bar dell’Hotel Ambos Mundos in calle Obispo nella vecchia Avana si beve probabilmente il peggior caffè dell’intera città ma in compenso la vista sul canale e il suo porto è incantevole e nei piani di sotto c’è l’ufficio di Hemingway con tanto di targa e foto ricordo (lui alla macchina da scrivere). Penso al pulitino “Il vecchio e il mare” che credo fece decretare la sua proclamazione al Nobel (quando il Nobel valeva ancora qualcosa) e penso che davanti all’abilità letteraria dei cubani José Lezama Lima e Alejo Carpentier, Hemingway semplicemente scompaia. Mi salgono alla mente le mirabili pagine di “Paradiso” di Lezama Lima, la profondità magmatica della sua scrittura in grado di ridimensionare anche Celine. Forse questi paragoni non si devono fare eppure io ho imparato bene a valutare quanto la musicalità e l’essenza di un poeta come Giorgio Caproni siano di gran lunga superiori al nostro Nobel Eugenio Montale. Perché ostinarsi a non dire la verità?
Ci addentriamo in profondità nelle viuzze della città vecchia ed ecco la maestà della Cattedrale dell’Avana con la facciata disegnata alla metà del 1700 da Francesco Borromini, nasce in questa visione un incredibile sentore esotico del barocco, delle sinusoidi che schiudono segrete armonie con tutto il contorno iberico e caraibico. Qui giacevano le spoglie di Cristoforo Colombo ma all’arrivo dei gringos la corona di Spagna decise di traslarle a Siviglia. I resti dell’autore della scoperta dell’America non potevano essere lasciati in mani sacrileghe.
Rientro in albergo camminando sul Malecon. La notte mi porterà al Buena Vista Social Club, un mito musicale che concentra l’essenza e la forza di tutti i ritmi del Caribe. Il costo del biglietto è elevato così come le aspettative che saranno puntualmente soddisfatte anche grazie alla pletora dei meravigliosi cocktail cubani rigorosamente a base di rum. Lo spettacolo dura solo 3 ore ma è una vera festa. Tutte le angosce della città diurna, i suoi drammi, l’incerto avvenire che con la presidenza Trump schiude altre assurdità, svaniscono. Cantanti e musicisti trasferiscono al pubblico internazionale una gioia palpabile declinata in un repertorio storico e gradevolmente arricchito da rielaborazioni in cui tutti possono identificarsi. Anche solo per questo attimo di felicità l’Avana valeva il viaggio. Dopo la mezzanotte i taxi riportano gli spettatori nei rispettivi alberghi percorrendo strade non illuminate. L’ Avana è di nuovo in preda alla sua profonda notte.
Copyright Paolo Alberto Valenti
Cuba - Malecon
Malecon (Avenida de Maceo)
Ernest HEMINGWAY
A l’Avana resta comunque onnipresente (inossidabile) il mito di Ernest Hemingway, non solo nella sua ex dimora, un museo rigorosamente fatiscente come il 70 per cento dell’urbano avanero
Hotel Nacional de Cuba
Al 12esimo piano la grande finestra della camera d’albergo svela la doppia incerta vista dell’Hotel Nacional e uno scorcio sul Malecon (Avenida de Maceo)
Avana - Cuba
Ci addentriamo in profondità nelle viuzze della città vecchia ed ecco la maestà della Cattedrale dell’Avana con la facciata disegnata alla metà del 1700 da Francesco Borromini