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I nostri valori

Due rose per Onorina e Lorenzo

Loft del Goethe Institut  – Lione  2  maggio 2012

Discorso pronunciato da Paolo A.Valenti in occasione della serata proposta da ClubMediaItalie e sostenuta dal Consolato Generale d’Italia a Lione in memoria di due grandi italiani vissuti a Lione nel XX secolo: Onorina Santilli e Lorenzo Tomatis.

Riuscirai a presentire ancora il sogno inscritto, insistito su queste pietre?

Ringrazio il Console Generale Laura Bottà, l’Istituto Italiano di Cultura di Lione e la sua Direttrice dr.ssa Loredana Lorenzo, l’organizzazione dell’Istituto, le famiglie Tomatis e Santilli, l’associazione Mémé Santilli e voi presenti.

I morti sono degli invisibili ma non degli assenti…negli ultimi mesi ho pensato molto a Onorina Santilli e Lorenzo Tomatis. Lorenzo Tomatis e Onorina Santilli sono sempre davanti ai miei occhi.

Tomatis è nato nel 1929 a Sassoferrato, in provincia di Ancona.  Onorina Santilli è nata nel 1919 a Secinaro, in provincia de l’Aquila.  Lorenzo si era laureato in medicina nel 1953 a Torino. Dopo la laurea capisce subito che in Italia non avrebbe mai ottenuto un posto da ricercatore e parte per gli Stati Uniti, dove l’attende una carriera folgorante. 

Onorina Santilli giunge nel 1947 a Lione con i primi due figli e il marito ingegnere ma fin da subito capisce che una vera famiglia non è mai chiusa su se stessa. Apre dunque le porte della sua casa alle persone che hanno bisogno di aiuto, ai giovani in difficoltà, alle persone che hanno bisogno di parlare dei propri problemi e che devono trovare un aiuto.   

Tomatis apre la porta dell’America per amore dell’umanità. E l’America gli ha offerto la possibilità di impegnarsi contro la malattia del secolo. La famiglia Santilli apre la porta della propria casa per amore dell’umanità. Capite bene che siamo di fronte a due persone, due italiani, che in ogni momento della loro vita sono sono stati motivati dai più nobili ideali. 

Sono partiti da loro stessi ma hanno pensato al mondo. Il fatto di vedere la disperazione, la povertà degli altri li ha motivati ad agire sotto il segno dell’altruismo, della giustizia sociale, della devozione al bene dell’umanità. La mia sensazione è stata che queste due persone siano riuscite a raggiungere il compimento della loro esistenza facendo al meglio quello che gli era toccato in sorte nella difficoltà dell’emigrazione.

Alcuni di voi sanno chi è stata Onorina Santilli che ci ha lasciati nel 2011. Altri sanno chi è stato Lorenzo Tomatis che ci ha lasciati nel 2007.

Non ho mai sperimentato morti così vive e vitali, che restano così fortemente datrici di vita. E credo che questa sera il privilegio sia rarissimo, quello di saper fare della propria scomparsa un punto d’incontro, un appuntamento, un luogo in cui si può rinascere.

“La mamma della casa” veniva chiamata questa semplice casalinga italiana che ha fatto della sua vita un rifugio per gli altri. Ha fatto di se stessa una casa. Onorina aveva fatto di lei stessa una casa per gli altri.

Le tappe dell’opera di Onorina Santilli negli anni Sessanta e Settanta sono incredibili.  Il Signor Santilli, marito di Onorina scompare nel 1961 all’età di 47 anni. Nulla cambia nella vita di questa donna, madre di 5 figli che continuerà ad accogliere i ragazzi in difficoltà, sempre più numerosi a casa sua, con incredibile generosità. Diventa in sostanza erede di ciò che aveva vissuto suo marito. Testimone sulla terra di un valore profondo.

Negli anni Settanta Onorina Santilli trasloca in un appartemento di 360 m2 al numero 4 di rue Sala, qui, nel secondo arrondissement di Lione con tre dei suoi cinque figli e con coloro che gli vengono affidati dalla DASS (all’epoca la Direzione degli Affari Sanitari e Sociali).

 Penso a queste strade,  quelle che avete percorso per venire qui, adesso….. alle famiglie che ancora oggi sono sfamate dall’associazione Mémé Santilli e poco più in là, la sede del Comune di Lione in cui Lorenzo Tomatis fondava negli anni Sessanta l’International Agency for Research on Cancer (IARC), grande centro di ricerca contro il cancro diventato poi un pilastro della lotta ai tumori  in tutto il mondo.

Riusciremo a presentire ancora il sogno inscritto, insistito su queste pietre? Dell’eredità di Renzo e Mémé cosa mai resta?

La dimora Santilli di Rue Sala era stata chiamata LA CASA che sintetizza la dicitura francese “Centre d’Accueil de Sans Amour”.  Sarà questo il nome dell’associazione che creerà nel 1981, vale a dire il primo prolungamento della sua opera di accoglienza e di sostegno ai giovani portatori di handicap. A partire da questo momento sono presenti almeno tre bambini oltre ai suoi, ma durante l’estate possono essercene fino a 15. Nel 1981 la creazione de LA CASA, al numero 7 della rue Chalopin, nel settimo arrondissement, apre la porta anche ai maggiorenni che non sono completamente autonomi. Lo scopo è quello di accompagnarli verso la completa autonomia.      

Onorina combatteva la fame ma non distribuiva solo il pane o la zuppa. Il peggiore dei mali è l’esclusione, la vera solitudine che produce una disperata ansia di tutto, fame d’amore e d’allegria. Ecco perché nelle frasi di Onorina prima di tutto c’era la parola: amore. Lorenzo combatteva il tumore prodotto da industriali senza scrupoli e dalle corporation, pronte a produrre ricchezza sulla pelle degli operai e dei cittadini, come è stato dimostrato in tanti casi,  quello della Eternit è solo uno degli ultimi. Lorenzo combatteva il cancro ma non era solo uno scienziato. C’è un poema che da sempre accompagna la mia vita. Il suo autore è totalmente sconosciuto dunque degno di essere citato. Il suo nome è Silvano Masacci. Credo che questo poema sia un ponte fra la storia di Onorina e quella di Lorenzo.   

Immaginate la Terra e la Luna fra qualche migliaio di anni quando saranno un deserto di rovine, dei luoghi simili a quelli che oggi sono Pompei o le vestigia della città inca di Machu Picchu. Il vagabondo dello spazio che ci parla grazie alle parole di Masacci si spiega così: 

 

“Nel mare della serenità presso il cratere di Bessel

Hanno rinvenuto i resti di un orsacchiotto di stoffa

Dicono sia appartenuto ai bambini lunari

Quest’anno l’inverno mi si attanaglia nel cuore

Sento le ossa scricchiolare sommessamente

Non so se potrò saltare da Sirio al Cane Maggiore

Sono nella nebulosa Omega del Sagittario

Un minuscolo granello di polvere cosmica

Mio padre un tempo vendeva legacci da scarpe

Sui gradini della chiesa di Sant’Andrea

Aveva un cane dagli occhi bianchi

Mia madre che non ho mai conosciuto

Se ne andò per il mare

Sento ancora la sua voce dentro ogni conchiglia

Oh Aldebarn, rossa, che sfiori le Pleiadi

Ti ricordi del mio cuore divenuto Galassia?

Le albe con le piccole cattedrali di brina

I tramonti con l’oro effimero dei sogni

Sono stato in ogni cosa della Terra

Sono stato in ogni tempo, in ogni luogo

Ho trapassato in silenzio tutte le cose

Sono divenuto atomo

Sarò soltanto il nulla che si estende nel cosmo……..”

 

SILVANO MASACCI  (tratto dal poema “Natale dal III planetario”)

 

Questa poesia potrebbe essere quella di uno qualunque degli esseri umani che Mèmè Santilli ha accolto, quelli che sono andati da lei perché non avevano più il padre e la madre,  abbandonati od orfani,  oppure malati.

Nel 1996 Avevo passeggiato sulle sponde notturne della Saona (Lione) con lo scrittore ligure Francesco Biamonti. “Guarda Tomatis è un grande”, mi aveva detto una di quelle sere in cui Biamonti era venuto a parlare qui a Villa Gillet e aveva incontrato questo oncologo di fama internazionale che aveva suscitato attorno a sé il rispetto profondo di tanta gente.

C’eravamo domandati perché Tomatis avesse deciso di  diventare epidemiologo? Tomatis, ce lo racconta in questo brano del suo libro “La rielezione”. Siamo nella Torino degli anni Cinquanta e lui si è laureato da poco.

Tomatis nel suo libro « La rielezione » spiega perché ha scelto di lasciare gli ospedali per diventare epidemiologo e aiutare ancora più intensamente l’umanità. Queste due pagine che leggerò in italiano sono commoventi perché è descritta la morte di Rico, un malato adolescente di 16 anni. La sua morte cambia per sempre l’esistenza di Tomatis, è la pietà che guida il suo spirito. E’ sempre l’uomo, il vero uomo, che si orienterà durante tutta la sua vita scientifica con quella stessa « pietas » alla quale Mémé Santilli aveva dedicato l’intera esistenza:

IL SANATORIO PER  ADOLESCENTI (da “ La rielezione “ R. Tomatis, Sellerio Editore Palermo)

“Quando ero appena laureato esercitavo la professione,  un termine altisonante per i minimi servizi che facevo, con entusiasmo e trepidazione. Fra le prime esperienze c’era stato un periodo in un sanatorio per adolescenti tubercolotici. Ci passavo tutte le mattine, tre notti alla settimana e una domenica su due, un’immersione quasi totale in un ambiente ben diverso da quello universitario. Ero talmente compreso della mia missione che riuscivo a superare i dubbi e la continua paura di sbagliare che prima e dopo quell’esperienza hanno caratterizzato il mio modo di fare il medico. Dubbi continuavo ad averli, ma osavo perché credevo e volevo credere in ciò che avevo appreso, e insieme per disperazione, perché l’inazione, l’attesa, lo scrollare le spalle dei miei colleghi più anziani e più esperti, erano intollerabili.

Passavo più tempo del necessario e di quanto fosse prudente fare di fronte allo schermo fluorescente, decidevo e talora eseguivo le punture lombari, visitavo con frequenza maggiore di quella prescritta i malati più gravi. Alcuni colleghi mi prendevano in giro, altri erano irritati e non nascondevano il loro disappunto per il mio interferire in una routine stabilita da tempo. I malati erano ragazzi fra gli otto e i diciassette anni, di famiglie povere, molti di province lontane, raramente veniva qualcuno a trovarli.

A molti mi ero affezionato, passavamo delle ore insieme, non credo che avessero una particolare fiducia in me come medico, ma ero più vicino a loro per età e per i miei modi. Lasciavano che prendessi iniziative terapeutiche, ma avevano la sfiducia più totale nella medicina, soprattutto erano convinti di non avere un futuro. Il loro pessimismo era assoluto, ognuno di loro aveva già visto morire qualche coetaneo, erano cinici e ingenui. Giocavo con loro a carte e a dama, facevamo qualche piccola passeggiata, anche in città con quelli che erano in condizioni migliori. C’era Rico che aveva sedici anni, ma ne dimostrava sì e no dodici, che aveva i polmoni divorati dalle caverne e la vocetta stridula perché anche la laringe era intaccata. Mi diceva: “Dottore perché te la prendi? Tanto non me la cavo, non darmela a bere, almeno tu”. Gli antibiotici erano arrivati troppo tardi per lui, quando ormai il male era penetrato troppo profondamente. Il primario scuoteva la testa, e l’odiai mentre diceva: “E’ tutto marcio poveretto, non c’è niente da fare”. Piccoletto, immiserito in un pigiama che gli andava largo, gli occhi che occupavano mezzo viso, le braccine sottili come grissini, Rico pronunciava parole che non ammettevano replica, e dopo averle pronunciate continuava a guardarmi fisso per bloccare ogni mia possibile reazione consolatoria.

Avevo finito per stare con lui più che con altri e una sera avevo ceduto a una sua preghiera e l’avevo portato fino al Valentino (parco sul fiume della città di Torino, ndr) a prendere un gelato. Era una calda sera d’estate, l’avevo avviluppato nella mia giacca perché non prendesse troppa aria sulla vespa. Non aveva mai visto il Valentino ed era tutto eccitato. Morì tre settimane dopo, una notte che non ero di guardia, per uno sbocco di sangue. Un impiegato del comune venne a ritirare la salma, suo padre nessuno sapeva dov’era, la madre era in un sanatorio per adulti e non era in condizioni di viaggiare. Mi ero chiesto se fare il medico fosse una scelta valida, se si potesse veramente essere utili, se la medicina fosse in grado di guarire. In tal modo si approfondivano le radici della decisione che mi avrebbe spinto piu’ tardi ad abbandonare la pratica della medicina per la ricerca, con l’idea che attraverso la ricerca sarei riuscito a fare di più e meglio”.

 

“Dateci parole vere” è l’unica preghiera possibile di qualunque giornalista che abbia un minimo di coscienza professionale. E la mia testimonianza, se vale qualcosa, è quella che m’induce a credere che Onorina Santilli e Lorenzo Tomatis facevano parte di quella categoria abbastanza rara di persone assolutamente umili che hanno saputo avvicinarsi  al grande mistero della verità e della vita, del dolore degli altri, spinti dal desiderio insaziabile di lenire le sofferenze altrui.

Mémé Santilli l’ho incontrata due anni fa. Il suo sguardo di donna anziana era impressionante, più della gioia delle persone che le stavano attorno e che la curavano con i gesti e con lo sguardo. Nei suoi occhi c’era il riflesso dell’infinito. Una luce rara.

Con Lorenzo Tomatis ho vissuto un’amicizia sottile fatta da pochi ma significativi incontri e dal mio grande desiderio di imparare da lui qualcosa che forse solo oggi comincio a intravedere.

Da giornalista mi sento di dire che l’eroismo del quotidiano di  Mémé Santilli resta la cosa più disarmante di tutte. Mémé era una donna disarmante davanti alla quale non ci si poteva che spogliare di tutto il nostro sapere proprio come Lorenzo Tomatis si era spogliato della sua scienza imperfetta davanti alla morte dei suoi pazienti e aveva architettato una risposta adeguata alle minacce sanitarie della modernità.

Ecco allora il ricordo della morte di due persone che diventa per sempre qualcosa di vivo e vitale. Sento anche il bisogno di  ringraziare coloro che sono stati più vicini a queste persone perché in fondo la bellezza di una persona, la sua carica positiva è il risultato di tante vite passate, presenti ed anche del bene che hanno colto dagli altri per ridonarlo.

Di noi, testimoni del mondo, tutte potranno andare perdute le verità, la realtà come l’arte. Ma l’animale che ha inventato la risata ha bisogno di una eco e sa nel profondo che anche lui è parte di un misterioso disegno, di  un unico luogo nell’universo in cui il vagabondo cessa di essere tale perchè diventa parte dell’universo stesso, diventa anche lui infinito. Sono molto riconscente a Renzo e Mémé che lasciano questa grande luce in eredità non solo a noi della comunità italiana e francese di Lione ma all’umanità intera.