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L’intelligenza artificiale à fatta da milioni di lavoratori invisibili

Antonio Casilli © photo.naepflin.com

Articolo originale pubblicato su valori.it

«L’intelligenza artificiale à fatta da milioni di lavoratori invisibili»

Dietro l’IA ci sono milioni di lavoratori sottopagati e senza tutele. Antonio Casilli racconta il lato nascosto dell’intelligenza artificiale

Ormai onnipresente nelle nostre vite e nel discorso pubblico, l’intelligenza artificiale è presentata da alcuni come la promessa di un futuro radioso, da altri come una minaccia esistenziale. La verità, probabilmente, sta altrove: più che immaginare scenari lontani, è urgente guardare a cosa l’IA sta già facendo oggi alla società, al lavoro e ai diritti.

Ne abbiamo parlato con Antonio Casilli, ordinario di sociologia all’Istituto Politecnico di Parigi e tra i massimi esperti dei rapporti tra tecnologie digitali e trasformazioni del lavoro.

Partiamo dall’inizio. Che cos’è l’intelligenza artificiale?

L’intelligenza artificiale nasce negli anni Cinquanta, tra Cambridge e gli Stati Uniti. Matematici, ingegneri, linguisti ed esperti di educazione si chiedevano come insegnare ai computer a ragionare come esseri umani. Da allora si sono affermati due approcci: quello basato su regole e quello basato sugli esempi. Quest’ultimo, cioè il machine learning, è quello prevalente oggi: si tratta di addestrare le macchine con enormi quantità di dati – foto, testi, video – perché imparino a riconoscere o generare contenuti.

E perché solo negli ultimi anni se ne parla così tanto?

Perché l’IA è diventata un fenomeno commerciale. Con il successo di ChatGPT ha acquisito visibilità globale, paragonabile a internet negli anni Novanta o allo smartphone. Ma ciò che vediamo è anche il frutto di una campagna pubblicitaria mondiale, che educa tutti noi a considerare l’IA inevitabile e utile per la produttività e la creatività.

Accanto all’entusiasmo, però, sono cresciute anche paure e rischi.

I motivi sono principalmente due. Il primo è culturale: film, romanzi e fumetti hanno disegnato immaginari apocalittici, hanno raccontato storie in cui le macchine sarebbero diventate più intelligenti e potenti dell’uomo. Si tratta di una narrazione che viene ripresa oggi dalle industrie e da molti opinionisti televisivi. Poi, c’è un secondo motivo che alimenta la paura dell’IA. Arriva dagli studi empirici che sono stati fatti sulle risposte date dalle intelligenze artificiali generative. Sono cariche di stereotipi, bias, discriminazioni, distorsioni che possono radicalizzare le persone. Poi, ci sono anche le cosiddette “allucinazioni”. Le IA alcune volte dicono delle vere e proprie falsità – anche piuttosto bizzarre.

E sul lavoro? L’IA è davvero destinata a sostituirci?

Su questo ci sono due scuole di pensiero. Alcuni economisti stimano che entro il 2030-2050 quasi metà degli impieghi possa essere sostituita dall’intelligenza artificiale Attenzione però: non parliamo di lavoro ma di impieghi. Con il primo si intende la mansione mentre con il secondo l’organizzazione sociale e economica che intorno a quella mansione o a quella prestazione si è costruita e conquistata nel tempo.

La seconda scuola di pensiero, invece, sostiene che l’IA non ci sostituirà perché non è stata sviluppata con questo scopo ma con l’obiettivo di migliorare le nostre prestazioni. Si chiamano infatti tecnologie di augmentation, proprio perché sono strumenti che rendono alcune mansioni più rapide o più facili. Il problema è che la retorica della sostituzione viene usata come pretesto politico ed economico per tagliare posti o peggiorare le condizioni di lavoro, esattamente come accadeva già all’inizio della rivoluzione industriale. Il problema, quindi, non ha a che fare con l’intelligenza artificiale ma con l’uso ricattatorio che dell’IA viene fatto. Insomma, il problema come spesso accade non riguarda la tecnologia ma il potere. 

Eppure lei parla spesso di un “lavoro nascosto” dell’IA. A cosa si riferisce?

Non agli ingegneri ben pagati, ma a milioni di persone in Kenya, Madagascar, Venezuela, India e altrove. Sono i data workers: etichettano immagini, traducono frasi, moderano contenuti violenti, insegnano a un’auto a fermarsi a un semaforo o a un robot aspirapolvere a evitare un ostacolo. Senza di loro l’IA non funziona. Eppure sono pagati pochissimo: 400 euro al mese a Nairobi, 100 in Madagascar, perfino 10–20 in Venezuela.

Di solito quando si parla dei lavoratori dell’IA le aziende citano persone plurilaureate con stipendi da favola che si occupano di migliorare queste tecnologie. In realtà, si tratta di una piccola percentuale: la maggior parte delle persone che lavorano allo sviluppo dell’IA lo fanno per insegnarle a riconoscere una sedia o una parola italiana. E sono sì molto formati, ma quasi sempre sottopagati. Si tratta di centinaia di migliaia di persone che vivono in Kenya, in Madagascar, in Venezuela, in India. E i numeri sono solo stime, perché i dati della Banca Mondiale vanno presi con le pinze. Sono i data workers: etichettano immagini, traducono frasi, moderano contenuti violenti, insegnano a un veicolo autonomo a fermarsi a un semaforo o a un robot aspirapolvere a evitare un ostacolo. Senza di loro l’IA non funziona. Eppure sono pagati pochissimo: 400 euro al mese a Nairobi, 100 in Madagascar, perfino 10–20 euro nel caso del Venezuela.

Quindi l’IA non ruba il lavoro, ma lo degrada?

Esatto. L’IA non nasce per sostituire il lavoro, ma per aiutarci a svolgerlo meglio. Il punto è che i capitalisti ci vogliono far credere che ognuno di noi è sostituibile dall’intelligenza artificiale e, con questa minaccia, ci mettono nelle condizioni di accettare situazioni degradanti o stipendi bassi per tenerci stretto il lavoro salariato. La minaccia vera, quindi, riguarda i posti tutelati e contrattualizzati. L’IA ha bisogno di tantissimo lavoro umano per funzionare. Al momento, diverse inchieste ci dicono che il lavoro creato dall’intelligenza artificiale è un lavoro mal pagato, e privo di tutele e diritti.

Che cosa possiamo fare per rendere questo lavoro più giusto?

Prima di tutto non lasciarci distrarre dalle profezie fantascientifiche, sono uno strumento di distrazione di massa. Poi dobbiamo difendere il lavoro riconosciuto, attraverso i sindacati e le tutele legali. Servono anche strumenti internazionali: in Europa esistono la direttiva sul lavoro delle piattaforme e quella sulla due diligence che obbliga le aziende a vigilare sulle filiere globali, comprese quelle digitali. Sono passi importanti, anche se costantemente sotto attacco. 

Lei ha parlato anche degli impatti ambientali dell’IA.

Sì, l’IA ha costi ambientali enormi: data center energivori, cavi sottomarini e, soprattutto, estrazione di litio per le batterie. Penso a luoghi come il Cile o la Bolivia, dove le miniere stanno devastando territori e comunità. Dietro l’apparente immaterialità dell’IA, dobbiamo ricordarlo sempre, ci sono sempre materie prime, conflitti sociali e impatti ecologici.

 

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