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GAZA : UN MASSACRO FINALIZZATO

la presse à Gaza volontairement ciblée par Israel

Un massacro nel massacro generale. Un massacro di testimoni scomodi, di professionisti della penna, del suono, dell’immagine. Un massacro come obiettivo perché attorno a quello generale ci sia solo silenzio, quel silenzio totale che neppure la morte è capace di dare e imporre. Il governo israeliano e con lui il suo esercito dopo aver imposto alla stampa estera di non mettere piede e quindi di non ficcare il naso in quello che è un vero e proprio pugno in faccia al diritto internazionale e alla protezione dei civili, sta ammazzando uno dopo l’altro scomodi giornalisti e giornaliste palestinesi.

Dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco dei terroristi di Hamas al rave party del kibbutz Reim, sono stati uccisi da Israele centosettanta giornalisti palestinesi, dati forniti dall’International Federation of Journalists (IFJ). 

Come non pensare che queste morti, scandalosamente troppe, non siano volute, ricercate, mirate? Un dossier sull’argomento finirà a breve sulla scrivania del procuratore della Corte Penale Internazionale. Crimini di guerra. Sissignore, crimini. Che si aggiungono a tutti quegli altri che l’esercito e il governo israeliano infliggono alla popolazione della Striscia.

“Condanno gli omicidi dei giornalisti Mohammad Jarghoun e Mohammad El-Salhi – aveva fatto sapere la direttrice generale dell’Unesco Audrey Azoulay all’indomani dell’assassinio dei primi due giornalisti caduti durante un reportage a Gaza, il 7 ottobre 2023 – La protezione dei giornalisti in quanto civili è un requisito imprescindibile del diritto internazionale, compreso nella risoluzione 2222/2015 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sulla loro protezione e su quella dei professionisti dei media e del personale associato in situazioni di conflitto. Chiedo indagini complete e approfondite per determinare le circostanze di queste tragedie”.

La prima giornalista donna a essere uccisa in terra di Palestina è stata Salama Mimah, il 10 ottobre 2023, quando la sua casa nel nord della Striscia è stata bombardata: giornalista alla Radio Al Quds, emittente generalista, Salama non era certo un componente di Hamas ma era a capo del Comitato delle giornaliste presso l’Assemblea dei media palestinesi, un’organizzazione impegnata a promuovere il lavoro sui media locali per le donne giornaliste.

Altre diciannove sue colleghe sono state ammazzate dalle pallottole e dalle bombe israeliane. La più conosciuta è la fotoreporter indipendente Fatma Hassouna la cui abitazione è stata rasa al suolo il 16 aprile di quest’anno. Aveva appena festeggiato, se si può ancora festeggiare qualcosa nella Striscia, i suoi venticinque anni e, guarda che caso, il documentario nel quale è protagonista (Put your soul on your hand and walk di Sepideh Farsi) la vigilia della sua morte era stato selezionato per il Festival di Cannes. Puzza di vendetta o addirittura d’intimidazione quest’omicidio di Fatm, un’intimidazione a tutta la stampa, alla cultura, alla voglia d’insorgere e dire la verità. Il suo lavoro, che testimonia le evacuazioni forzate dei gazawi, la distruzione delle loro infrastrutture, le perdite civili era stato pubblicato dai grandi media internazionali tra i quali anche il The Guardian ed esposto in mostre internazionali. “Abbiamo mirato un membro di Hamas”, si è giustificato così l’esercito israeliano allo sconcerto generale.

“Il suo crimine – ha risposto a muso duro Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU per i territori occupati della Palestina – è stato quello di tenere una cronaca del genocidio attraverso foto e articoli di grande impatto. Ciò che un regime genocida non può permettere”.

Se tutti i giornali del mondo hanno raccontato Fatma e il suo assassinio, gli altri, tutti gli altri suoi colleghi non hanno trovato lo stesso spazio sulle pagine dei nostri quotidiani. Forse solo un accenno, forse un trafiletto. Per lo più niente.

Eccezion fatta per un altro fastidioso personaggio, fastidioso per Netanyahu, il suo governo e il loro braccio armato. Per lui, in effetti, sono state spese diverse righe, forse anche qualche colonna: Rushdi Sarraj, trentunenne reporter che lavorava da oltre dieci anni per la stampa estera, in particolare per il Washington Post, Le Monde, Radio France e per diverse ONG internazionali. Aveva fondato con Yaser Murtaja, ucciso, lui, nel 2018, Ain Media, una società specializzata in servizi giornalistici per media stranieri. È morto sotto un missile il 22 ottobre 2023. Sì, andava eliminato subito, troppo pericoloso un infiltrato dei grandi quotidiani internazionali, uno che aveva saputo conquistarsi la fiducia dei direttori e delle redazioni francesi e americane. Qualche giorno prima che la bomba lo facesse saltare in aria aveva twittato su X: “Manca la copertura mediatica da Gaza a causa dell’uccisione di più di dodici giornalisti [in realtà erano già diciannove], dei bombardamenti e del blackout di elettricità e internet. Tuttavia, stiamo ancora cercando di resistere e di continuare la copertura in modo che il mondo possa vedere i crimini israeliani a Gaza”. Per Netanyahu, Rushdi Sarraj aveva firmato il suo atto di morte.

Anche per lui Audrey Azoulay dell’Unesco aveva alzato la voce. Ma gridare non serve più a granché, il governo d’Israele è sordo e se ne fotte. Solo testimoniare serve, sì, testimoniare per non dimenticare. E soprattutto non far dimenticare queste morti indecenti. Mai.

 

FRANCESCO RAPAZZINI

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