Dovrebbe bastare una formula: & ≠ ?
ma con le teste dure che ci sono in giro, servono chiacchiere belle ridondanti.
Vabbuo’, jamme a passà’ ’sto guaio. ***
Cari italiani vicini e lontani, siete gli unici latinos ad avere un problema di congiuntivo.
Vi ho definiti con un termine inglese – latinos – così ci capiamo.
– Grazie, ma qual è il problema?
Mi riferisco alla incapacità diffusa di gestire il modo verbale chiamato congiuntivo. Una
congiuntivite acuta vi fa lacrimare dall’infanzia; per l’esattezza dall’ora d’italiano alle
elementari.
– Bene, cioè male.
– E non dica cioè! Non è più di moda; oggi si dice “nel senso che”.
La mia diagnosi risale all’origine temporale del male. Ho denunciato le circostanze di una
genesi malvagia ma invece di curare il male come fan tutti, vorrei indicare una profilassi.
– Vorrebbe prevenire il problema?
– Sì, ma ho usato il termine profilassi per far capire da subito che sono una persona colta, almeno quanto i sedicenti difensori della lingua italiana che usano il congiuntivo come una clava.
Cari italiani vicini e lontani, dovete rinunciare a chiamare un modo verbale facile da maneggiare con un termine ingarbugliato come tutto il lessico grammaticale.
– Cioè? Voglio dire… in che senso?
Nel senso che il termine congiuntivo è sbagliato e fuorviante, punto.
Ora non cominciamo ad associare il cosiddetto congiuntivo con locuzioni come penso che,
credo che, e via affermando facendo finta di niente. Sarebbe più giusto associarlo al futuro, sempre incerto, come fanno gli spagnoli con logica e fatalismo.
Ecco un esempio tirato dalla vita domestica: «¡Hazlo y ya está! Te darás cuenta cuando seas mayor. – Fallo e basta! Capirai quando sarai grande.» Sottinteso: «se non ti strozzo prima!» La minaccia latente spinge lo spagnolo ad usare un “congiuntivo” dopo il primo
verbo al futuro. L’italiano invece è tranquillo: mette entrambi i verbi al futuro, con l’ottimismo ebete di un suonatore di mandolino.
– Va be’ ma noi non siamo spagnoli.
– Non abbastanza, purtroppo, per sapere coniugare i verbi in modo logico (e per maneggiare l’arte della punteggiatura, esclusi Pirandello ed altri siciliani che sono rimasti spagnoli.)
Dovrebbe bastare una formula:
& ≠ ?
ma con le teste dure che ci sono in giro, servono chiacchiere belle ridondanti.
Vabbuo’, jamme a passà’ ’sto guaio.
***
Cari italiani vicini e lontani, siete gli unici latinos ad avere un problema di congiuntivo. Vi ho definiti con un termine inglese – latinos – così ci capiamo.
-
- Grazie, ma qual è il problema?
Mi riferisco alla incapacità diffusa di gestire il modo verbale chiamato congiuntivo. Una congiuntivite acuta vi fa lacrimare dall’infanzia; per l’esattezza dall’ora d’italiano alle elementari.
-
- Bene, cioè
- E non dica cioè! Non è più di moda; oggi si dice “nel senso che”.
La mia diagnosi risale all’origine temporale del male. Ho denunciato le circostanze di una genesi malvagia ma invece di curare il male come fan tutti, vorrei indicare una profilassi.
-
- Vorrebbe prevenire il problema?
- Sì, ma ho usato il termine profilassi per far capire da subito che sono una persona colta, almeno quanto i sedicenti difensori della lingua italiana che usano il congiuntivo come una
Cari italiani vicini e lontani, dovete rinunciare a chiamare un modo verbale facile da maneggiare con un termine ingarbugliato come tutto il lessico grammaticale.
-
- Cioè? Voglio dire… in che senso?
Nel senso che il termine congiuntivo è sbagliato e fuorviante, punto.
Ora non cominciamo ad associare il cosiddetto congiuntivo con locuzioni come penso che, credo che, e via affermando facendo finta di niente. Sarebbe più giusto associarlo al futuro, sempre incerto, come fanno gli spagnoli con logica e fatalismo.
Ecco un esempio tirato dalla vita domestica: «¡Hazlo y ya está! Te darás cuenta cuando seas mayor. – Fallo e basta! Capirai quando sarai grande.» Sottinteso: «se non ti strozzo prima!» La minaccia latente spinge lo spagnolo ad usare un “congiuntivo” dopo il primo verbo al futuro. L’italiano invece è tranquillo: mette entrambi i verbi al futuro, con l’ottimismo ebete di un suonatore di mandolino.
-
- Va be’ ma noi non siamo
- Non abbastanza, purtroppo, per sapere coniugare i verbi in modo logico (e per maneggiare l’arte della punteggiatura, esclusi Pirandello ed altri siciliani che sono rimasti )
Ecco un esempio più italiano, a dimostrazione che il cosiddetto congiuntivo non segue locuzioni del tipo credo che.
Durante il sermone, il prete può dire sono un credente, io credo e subito dopo concludere che Dio c’è. Se, in una frase così articolata, un prete dicesse Io credo che Dio ci sia, il vescovo lo manderebbe a meditare in un paesino di montagna dove non vedevano un prete dai tempi di Don Camillo.
Dopo una ipotesi degna di Peppone, posso, devo, voglio delineare un diverso epilogo, senza “congiuntivo”: un finale da tragedia greca, nel futuro già presente nel primo atto.
Credo che quel prete se la caverà grazie al clericalismo che spinge i fedeli all’omertà. Saltando su un piede di casella in casella nel gioco della campana, la sua carriera ecclesiale lo porterà dalla Terra al Cielo – in Vaticano – dove il Credo, preghiera centrale della fede cattolica, diventerà il Mi pare.
Questa sì che sarebbe un’eresia!, non il pensiero caritatevole per il quale se la prendono con un Papa umano finalmente che… ma non cambiamo discorso.
Il Credo dei cattolici, che evoca la Congiunzione suprema, non contiene un solo verbo al “congiuntivo” perché evoca certezze fondamentali, definitive, e quindi assolute come il potere del Papa Tridentino in simili faccende: io credo che Dio c’è, punto.
-
- Non credo affatto che si dica così.
- Io credo che si dice così. Non credo invece nel congiuntivo che lei usa dopo aver detto “non credo”, da miscredente poco Un dubbio sul dubbio, come una doppia negazione, vale un’affermazione. Cosa faceva nell’ora di matematica, dormiva?
Sentiamo qualcun altro. Lei! Sì, lei, in prima fila…
Come dice? Non è sicuro? Lei sotto-pone il suo giudizio a un Dio Dubbio al quale si sotto– mette? Fa bene. Quella divinità superiore mi ha guidato fin qui, salvandomi dal baratro di certe certezze. Non dico di tutte le certezze anche perché la cacofonia “certe certezze” segue una moda che mi piace. Anch’io dico “l’ambiente che ci circonda”. L’ambiente da solo è poco avvolgente; l’ambiente “che ci circonda” ci circonda come il cha cha cha della segreta-a-a-aria della mia gioventù, che tempi! Anch’io dico zenzazoluzione di kantinuità, da quando so che non c’entra lo Zen, né Kant, perché significa continuo… o forse discontinuo, ora non importa, conta la musica, il ritmo, e l’assonanza con ♫Dove sta Zazà…
Ripeto: mi sono salvato da certe certezze ma non da tutte. Difatti credo che una cosa è certa: la difficoltà dei latinos italici nel maneggiare quel modo verbale non deriva dalla sua trascendenza ma dal nome che porta nello stivale e in nessun altro paese, barbari esclusi. Per dirla tutta, quel “congiuntivo” mi puzza, e non è colpa dello stivale.
Credo che quel modo verbale non debba dovrebbe deve chiamarsi con-giuntivo perché non con-giunge un bel niente! Anzi, divide diabolicamente la società italiana, separando quelli che io il congiuntivo non lo sbaglio da quelli che io il congiuntivo non lo so quel giorno ero malato. Congiungere significa unire, come nella congiunzione latina et le cui due lettere – e , t – si uniscono a loro volta nel segno &, sacro agli amanuensi. Stiamo invece parlando di un modo verbale che esprime un dubbio, una eventualità, traducibile con un punto interrogativo ? il quale afferma la propria interrogazione con una spirale labirintica che spunta da un punto, appunto, e punta all’infinito. (1) Ergo la formula:
& ≠ ?
Si deve – e si dovrà, cari accademici della Crusca – andare al grano (come dicono gli spagnoli quando vanno al sodo) e chiamare quel modo verbale come in altre lingue guidate da romana logica & imperiale fermezza: in francese subjonctif, in inglese subjunctive, in spagnolo subjuntivo. Se tanto mi dà tanto, in italiano si deve dire subgiuntivo. “Se tanto mi desse tanto”, lasciatelo dire ai primi della classe; saranno ultimi, al giudizio finale della vita.
Visto che siamo tornati alle cruscate, amici, cercate di far smettere anche quella ridicola convenzione secondo la quale al plurale, si cambia la pronuncia delle parole. Solo uno scribacchino sordomuto può scrivere specifico al singolare e specifici al plurale. Si deve – e si dovrà, cari – scrivere specifichi, per salvare la pronuncia e la bell’assonanza con un frutto mediterraneo dal vasto campo semantico. L’orale conta più dello scritto, alla sbarra dei testimoni nei tribunali come in più amene alcove. Ciò vale per “dicasi”, che si pronuncia correttamente senza dover scrivere “dicassi”. Lo stesso dicasi per risalire. Si dovrà sempre pronunciare come salire, con un fonema S duro come il sale della vita, e non moscio come l’attributo-concorda-in-genere-e-numero dell’homo grammaticus.
All’homo medicalis che volesse anche fare l’homo intellectualibus, ignorando che intellettuale sarà sua sorella infermiera, sconsiglio di minimizzare il dolore di chi si è dato una martellata sulle dita evocando l’eterogenesi dei fini. Mai fare l’intellettuale nelle vicinanze di un martello, o di una falce.
Infine, l’Accademia dovrebbe legiferare in materia di bollettino meteo. Regolarmente, annuncia pioggia a Kuala Lumpur e neve in Kazakhstan, ma fenomeni sul Nord Italia. Rimane sul vago perché la gente del Nord può verificare. I colonnelli dell’aeronautica sembrano ignorare che l’annuncio di fenomeni al Nord terrorizza la gente del Sud, che ha buona memoria storica. Siate più precisi, colonnelli, prima che l’Accademia vi metta in riga. E si alzi di un grado, da colonnello a generale, chi annuncia 10 gradi a Milano con temperatura percepita di 5 gradi. Con lo stesso affetto, la mia mamma saggiava sul dorso della mano la temperatura percepita del latte prima di darmi il biberon – ricordo bene – e più avanti, senza tanti giri di parole, mi diceva: «ho freddo, mettiti la maglia.»
Cosa?! Subgiuntivo non piace? Quel sub fa pensare alle forche caudine? Tutti, signori miei, tutti, romani e non, finiranno prima o poi sotto il giogo dell’incertezza; tutti dovranno usare il subgiuntivo. E per tutti intendo anche i toscani!, della Crusca e non.
Sconsiglio d’indebolirlo in soggiuntivo. Bisogna conservare al termine la sua forza passiva, non certo per masochismo ma perché il realismo va reintrodotto nella nostra bella lingua. Quando invece siamo sicuri di quanto diciamo, non dobbiamo usare il subgiuntivo ma un modo verbale diverso.
Esempio: «Prometto di non prendere più in giro gli analfabeti che sbagliano il congiuntivo italiano perché la colpa non è loro; è degli analfabeti dotti che chiamano congiuntivo un modo verbale che andrebbe chiamato subgiuntivo. Quando saranno eliminati questi, molti di quelli spariranno.»
Tale solenne impegno dovrà essere ricopiato 50 volte dagli accademici della Crusca ed
altri prof d’italiano ma prima, proviamo a dubitare della bontà di un simile engagement.
«Prometto che se spariranno (e non sparissero) gli analfabeti dotti che chiamano congiuntivo
un modo verbale che va chiamato subgiuntivo, non prenderò più in giro gli analfabeti che
sbagliano il cosiddetto congiuntivo.» Perché questi sparirebbero? No! Perché questi spariranno, quando quelli saranno stati e-li-mi-na-ti!
-
- Ma se invece di ammazzarli tutti come si meriterebbero fossero… cioè, nel senso che, se invece saranno legati ad un palo di fronte alla Villa medicea di Castello a Firenze, e solo frustati dai frustrati bocciati in italiano? Non sarebbe meglio, cioè, non sarà meglio?
- Come è umano lei… Vabbuo’, vedremo, Inch
Ah, giusto, prima o poi parleremo del tempo verbale futuro che va sempre seguito dalla versione religiosa del subgiuntivo: una locuzione sacra nella quale il verbo si coniuga sempre al tempo Presente del modo Eterno:
Se Dio vuole – Inch Allah – Si Dios quiere – God willing – Si Dieu le veut – Wenn Gott will – &c.
o altre umili invocazioni alla Divinità. La prudenza non è mai troppa. Non sia mai, però gli Dèi potrebbero vendicarsi, se noi li dimenticasti.
Jean Santilli
- … una spirale labirintica … Sottile riferimento al capitolo Labirinti, in Nostra Signora Dea & Il femminicidio degli Eroi (https://independent.academia.edu/JeanSantilli) Chi si fosse annoiato all’ovvio discorso sul “congiuntivo” vi troverà altri attacchi alle accademie. Propagano vecchie, maligne, dubbiose certezze, inconsapevoli del male che (2)
- Possiamo illustrare tale malvagità col seguente estratto da Funzioni ed usi del linguaggio tecnico (1992 – Testo originale completo su https://independent.academia.edu/JeanSantilli)
« …/… 1.D.1. Nel Teatro della vita: la forza relativa.
Il dialogo, oggi simbolo di pace, è da sempre una trasposizione simbolica del combattimento corpo a corpo. Un etologo direbbe che anche l’Uomo ha inventato un modo di scaricare la “conflittualità intraspecifica”: un duello ritualizzato che protegge la specie dall’autosterminio. In questi combattimenti quotidiani, il linguaggio tecnico è usato in dosi discrete o grossolane per esibire la “conoscenza”, cioè la forza di ogni contendente, come gli uccelli esibiscono piume sgargianti ed altri attributi. Per invitare alla battaglia, si strombazza qualche termine tecnico; se l’altro non si sottomette (silenzio rispettoso, cioè orecchie-basse-coda-tra-le- gambe) seguono le solite scaramucce verbali più o meno cruente.
Il linguaggio tecnico è quindi una delle armi del combattimento-dialogo; i termini tecnici sono le munizioni; gli autori citati sono gli alleati tattici (i cari colleghi) o strategici (gli autori “panteonizzati”); sfavillanti citazioni abbagliano il nemico come la doratura delle armature.
Su questo piano di linguaggio, ogni termine, concetto o citazione non contiene altro che una certa quantità di forza relativa: la “competenza” dell’uno determina l’incapacità di competere dell’altro. Nei combattimenti più civilizzati, la cerimonia di resa è la spiegazione che il vincitore concede al vinto, il quale è così convinto e conquistato, cioè omologato alla conoscenza dell’altro: chi comprende è compreso, cioè fagocitato. Il dialogo tecnico quindi produce prima la forza relativa, poi la comprensione o il suo contrario.
Usato insieme ad altri linguaggi, il linguaggio tecnico può produrre altri fenomeni simili, come la comunicazione o la simpatia. Ogni insegnante sa, o sente, che la simpatia aiuta la comprensione, e che l’incomprensione è spesso un rifiuto: rifiuto dell’istituzione o rifiuto della persona che spiega, la quale spesso lo sente; a volte, ne rimane offesa… e reagisce ai danni dell’alunno “refrattario”.
L’etimologia, come un filo di Arianna, ci aiuta a collegare le parole simpatia-comprensione- comunicazione-fagocitazione (e antipatia-incomprensione-espulsione).
Un biologo potrebbe dire che la comunicazione non è una trasmissione-ricezione di dati bensì una fagocitazione reciproca.
Un matematico tradurrebbe: 1×1=12, di “qualità diversa da 1” (così come un metro-quadro è diverso da un metro-lineare).
Un etologo segnalerebbe che simpatia-comprensione-comunicazione-comunione-fagocitazione si esprimono in un linguaggio gestuale: la stretta di mano, l’abbraccio, il bacio. Gli Dei dell’Amore e della Guerra, e mostri antropofagi, e soavi spiriti, sono tuttora attivi dalle quinte del nostro teatrino quotidiano. Drammi antichi vi si recitano, nelle infinite sfumature dei nostri dialoghi… e dei nostri Canti, che evocheremo più avanti.
1.D.2. Nel Teatro della vita: il potere assoluto.
La forza relativa del ceramista ha la sua fonte nel linguaggio della propria Corporazione: un Essere il cui potere è assoluto. È ora di migliorare la nostra formulazione di questo fenomeno “ontogenico”: in realtà, ogni gruppo, ogni istituzione produce-ed-è-prodotta-da un linguaggio (si ritrova qui il dilemma lineare della gallina e dell’uovo, risolto dal nostro approccio sistemico).
La Scuola, la Sanità, la Polizia, l’Esercito, la Magistratura, ogni amministrazione o istituzione produce-ed-è-prodotta-da un linguaggio tecnico specifico, nel quale dei titoli indicano una gerarchia di forze relative, la sintassi di un potere assoluto: si è maestro o professore, si è uomo o caporale.
Infine, secondo lo stesso processo ontogenico, uno stato nazionale produce-ed-è- prodotto-dal linguaggio tecnico supremo, la Lingua Nazionale, codificata in una grammatica che è la più statica delle leggi costituzionali di uno stato nazionale. Ecco perché il linguaggio tecnico grammaticale è così ermetico: la Messa non si dice più in latino, ma nelle scuole nazionali, la Lingua-Madre-Patria si studia ancora in grammatichese. Ecco perché i dialetti sono combattuti da tutti i Minculpop (una parola, due significati) e parlati solo in privato, con una punta di vergogna o di esaltazione. Negli stati nazionali, i “dialetti” (stessa etimologia di “diavolo”, Colui che divide) sono sempre eversivi.
1.D.3. Dal Teatro allo zoo: la forza-inganno; il potere-simulacro.
A volte, la forza insita nel linguaggio tecnico è fasulla; molte rapine riescono con pistole di plastica. La letteratura è ricca di esempi, dal medico di Molière all’avvocato Azzeccagarbugli di Manzoni. Certi uomini, superiori in questo agli uccelli, esibiscono piume finte: tupé, parruccone o impianto. Questi pseudo-linguaggi producono-e-sono- prodotti-da istituzioni che hanno smarrito le proprie finalità originali, riducendosi a simulacri di procedure vacue e fossilizzate: nelle gabbie dello zoo, appese a monconi di alberi morti, le scimmie mimano ossessivamente il proprio povero Essere.
- USI DEL LINGUAGGIO TECNICO.
2.A. Due linguaggi, due scuole.
Il linguaggio “lineare” produce-ed-è-prodotto-da la didattica disciplinare. Il linguaggio
“sistemico” produce-ed-è-prodotto-da un approccio metadisciplinare. …/…» (3)
- Nel presente testo, Il congiuntivo spiegato agli italiani e all’Accademia della Crusca (come nell’altro citato a proposito di labirinti), l’autore usa tale “linguaggio sistemico & approccio metadisciplinare”. Affronta un tema definito solo in apparenza dal titolo, ingannevole come un contratto
In Funzioni ed usi del linguaggio tecnico invece, l’autore ancora giovane usava il linguaggio lineare della didattica disciplinare. Ciò spiega perché quel piccolo saggio del 1992 era chiaro e concludente, quindi limitato nei suoi scopi e noioso come… come un saggio scritto da chi non conosce l’origine della parola “saggio”, rubata a Montaigne.
Nel francese del ‘500, gli “essays” di Montaigne erano saggi nel senso di prove, come in saggio di fine anno. Montaigne, umile gigante, scrisse dei saggi di fine vita, dopo essere stato magistrato, ambasciatore, sindaco di Bordeaux, consigliere e amico di due re di Francia. Cristiano, si opponeva alla Lega – guarda caso! – dei cattolici estremisti in guerra contro i protestanti. Montaigne, l’umanesimo incarnato, scriveva come mangiava: bene. Ha nutrito i più alti spiriti per secoli. Oggi si scrivono “saggi” che sono, troppo spesso, delle cravatte grigie inamidate esibite da chi potrebbe iniziare a vivere, se trovasse il coraggio di lasciare il grembo di Mamma Accademia.